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C’è un savonese ai vertici del Club Alpino Italiano: la sua presenza e quella di parecchi altri liguri (soprattutto ponentini) all’interno di quella che potremmo definire scherzosamente la “nomenklatura alpina” italiana è un ulteriore riscontro dell’identità (anche) “montanara” della Regione. Il professor Annibale Salsa insegna Antropologia culturale presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova; ricopre il ruolo di Vicepresidente generale del Club Alpino Italiano, e ne è responsabile dell’area cultura e ambiente. Ha svolto incarichi e collaborazioni all’interno e per conto – tra le altre istituzioni – del CNR, dell’UNCEM e della CIPRA. E’ stato membro del comitato scientifico italiano per l’«Anno internazionale delle montagne» (2002). Approfittiamo della disponibilità del nostro conterraneo per conversare (quasi) a ruota libera su questioni più o meno “liguri” e “alpine”.



Professore, per iniziare potremmo parlare di uno dei suoi impegni all’interno del Club Alpino Italiano: la sua proposta di riforma del primo articolo dello statuto dell’associazione, che prescriverebbe lo studio e la conoscenza della montagna come obiettivi fondamentali dell’attività CAI… E’ un’esigenza di innovazione o, come mi sembra di capire, lo spirito è ben altro?

All’interno del CAI alcuni interpretano ciò che propongo come uno stravolgimento, ma si tratta solo di un ritorno alle origini: fu proprio Quintino Sella, il fondatore del Club Alpino Italiano, a porre la conoscenza della montagna come imperativo categorico.

Già lo statista biellese più di un secolo fa intravedeva concretamente come l’andar per monti possa essere una scuola di vita e di crescita culturale ad elevato plus – valore etico – pedagogico. Il sentiero (e la parete) possono rappresentare degli educatori tanto più oggi, in un’epoca dominata dalla sindrome della velocità, dove “guardare” e “vedere” si distanziano sempre di più. Il semplice guardare si consuma nel disinteresse per le cose, nella libidine della quantificazione a scapito di quel “saper vedere” che educa l’uomo a fermarsi rispettosamente sulle cose senza violentarle. La filosofia originaria del CAI venne accantonata o posposta con la riforma del 1931, durante il periodo fascista, quando venne privilegiata l’impronta sportiva e tecnicistica a spese dell’aspetto esplorativo e culturale. Anche oggi, d’altra parte, la ricerca della performance atletica e l’approccio agonistico sono patrimonio della cultura dominante. Ma il tecnicismo confonde mezzi e fini: la tecnica alpinistica e sportiva deve rappresentare solo un mezzo al servizio del fine, che era e resta la conoscenza della montagna: la montagna vista come ambiente naturale, ma, soprattutto, come “paesaggio culturale” addomesticato dall’intervento umano.



Una prospettiva che rivela l’occhio dell’antropologo…

Guardavo così la montagna già da bambino, istintivamente. Poi l’antropologia mi ha dato gli strumenti per un perfezionamento scientifico. Da questo background di tipo esperienziale mi è derivato un approccio antintellettualistico alla montagna, ed ho proseguito a frequentare tutto l’arco alpino infangandomi le scarpe. Mi sento anche molto lontano dalla percezione astratta della montagna che hanno gli “ambientalisti a tavolino”: si pensi al ruolo fondamentale che rivestono le attività umane, con pratiche come la fienagione o la silvicoltura, nella gestione del territorio.



Attività, peraltro, che in molti settori dell’arco alpino hanno lasciato il posto all’abbandono…

Abbiamo assistito ad una vera e propria svendita del territorio; il montanaro percepisce se stesso come un cittadino di serie B, in una posizione di subalternità rispetto ai centri del potere che si sono spostati a valle. Sotto l’aspetto culturale, la modernizzazione spinta, il postmodernismo, con la loro carica totalmente innovativa, trovano nel mondo contadino e montanaro un elemento di resistenza. Da questo scontro scaturisce una convivenza forzata tra il “nuovo” e il “vecchio”, e spesso, il “nuovo” travolge il fragile codificato del “vecchio” appropriandosene e “folclorizzandolo”. Alla cultura contadina e montanara si sostituisce una “tradizione inventata”, che convive pacificamente accanto alla modernizzazione; d’altra parte, una delle caratteristiche del postmoderno non è proprio la convivenza di aspetti contraddittori all’interno di spazi contigui?



E qual è la risposta culturale alla modernizzazione forzata?

Una risposta possibile si chiama “glocalismo”: la coniugazione delle esigenze locali e l’esaltazione delle differenze in riposta al globalismo cancellatore della diversità, con la sua presunzione di creare un unico paesaggio omologato composto di “non luoghi”.



Mi permetto di far notare che, più che “glocalismo”, dalle nostre parti vedo del campanilismo. Io per primo cerco di scherzare sul mio campanilismo e su quello altrui, ma, purtroppo, si tratta di un handicap culturale non da poco…

Il campanilismo è il rovescio della medaglia del globalismo. Partiamo dal presupposto che l’identità è, per così dire, il precipitato della diversità. Se, in nome della difesa del patrimonio culturale locale, aboliamo la dialettica tra le diversità e le differenze, e ci trinceriamo in una difesa incondizionata, passionale e irrazionale di quello che crediamo essere il “locale”, facciamo il gioco dell’omologazione. E’ il canto del cigno, l’ammissione della nostra subalternità. Non dobbiamo, però, dimenticare che ci sono anche molte realtà attente ad una positiva valorizzazione del locale.

In Liguria Occidentale devono crescere la percezione e l’autopercezione di appartenenza ad un’area – unitaria – di transizione tra il mondo alpino e quello rivierasco. In questo senso i lavori degli studiosi possono essere importanti per connotare aree e culture: penso al caso dei Walser. E poi è giunto il momento di pensare in una mentalità di rete: il campanilista non pensa in rete.



Una rete che conduce anche oltreconfine…

All’interno del processo di omologazione europea territori alpini di confine come la Liguria Occidentale sono chiamati a ricoprire un ruolo attivo; penso alla costruzione di macroregioni transfrontaliere, all’apertura verso il Nizzardo e la Provenza, è tempo di guardare ad Ovest e a Nord Ovest… E anche l’uso della “rete”, quella telematica, può permettere una migliore comunicazione all’interno del nostro “villaggio”.



E’ proprio quello che stiamo facendo in questo momento…

Certo: anche esperienze come Discoveryalps sono utili per fare uscire le montagne dalla marginalità comunicazionale dove sono troppo spesso relegate.





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