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Il Trento Film Festival 58sima edizione si apre all’insegna del tutto esaurito. La prima proiezione del film di Joseph Vilsmaier “ Nanga Parbat” sabato 1 maggio ha reclamato così tanti spettatori che sono in programma ben quattro repliche dell’opera per non deludere le molteplici richieste. Successo di pubblico meritato, essenzialmente per due motivi: per la misura con cui il regista, che ha avuto come consulente lo stesso Reinhold Messner, ha affrontato un casus belli dell’alpinismo moderno e perché, avendone i mezzi, ha usato la fiction per raccontare la spedizione del 1970.

Il film ripercorre l’adolescenza dei fratelli Reinhold e Günther Messner, la loro formazione alpinistica e le motivazioni che li spinsero a partecipare alla spedizione al Nanga Parbat guidata da Karl Maria Herligkoffer: “anche con il diavolo” pur di andare sulla montagna dei loro sogni fin da bambini, dicono i due protagonisti. Il “diavolo” è Herrligkoffer, a sua volta segnato dalla scomparsa del fratellastro Willy Merckl sulla stessa fatidica montagna, il Nanga Parbat

I fratelli Messner entrarono presto in conflitto con il capo spedizione, per un diverso modo sia di intendere la progressione sulla grande parete himalayana, sia di rapportarsi all’interno del gruppo con il capo spedizione. Non a caso viene citato in un dialogo tra i fratelli il nome di Bonatti: si intravedono le similitudini dell’atteggiamento verso i capi spedizione del ‘54 al K2 e del ‘70 al Nanga Parbat. 

Reinhold e Günther riuscirono a raggiungere la vetta portando a termine l’ascensione del versante Rupal, ma lassù si trovarono nell’impossibilità di scendere dalla via di salita, non ancora completamente attrezzato con corde fisse. Reinhold guidò così il fratello in un’estenuante discesa dal versante Diamir dove Günther venne infine travolto da una slavina. Reinhold lo cercò inutilmente e alla fine scese da solo, ricomparendo dopo sei giorni sulla strada del ritorno dove venne finalmente soccorso dal resto della spedizione che nel frattempo aveva abbandonato il campo base. A Reinhold vennero poi mosse le accuse di aver sacrificato la vita del fratello pur di raggiungere la vetta, lui a sua volta accusò il capo spedizione di mancato soccorso. Solo il ritrovamento dei resti di Günther nel 2005 ai piedi della parete Diamir mise fine alle accuse infondate verso Reinhold. Questi per altro ha sempre predicato nel corso degli anni l’autosufficienza al di sopra di quota ottomila.

Il film è equilibrato nel delineare i personaggi: certo Herrligkoffer non è simpatico, ma è un’anima travagliata dalla perdita del fratellastro, preoccupato sì del successo della spedizione, seppure in parte inteso come successo suo personale, ma anche di non avere morti sulla coscienza. Dall’altra si indaga sull’ostinazione di Günther a seguire il fratello maggiore, anche senza corda, anche senza aver completato di attrezzare la via del ritorno, con la segnalazione del “razzo rosso” che autorizzava il solo Reinhold a fare un rapido tentativo alla vetta. Proprio dal razzo rosso che avrebbe indicato previsioni di brutto tempo, lanciato erroneamente da Herrligkoffer, si muovono le accuse di Reinhold Messner contro il capo spedizione.
L’intera vicenda, ma con toni decisamente più aggressivi e polemici, viene riportata nel libro di Reinhold Messner “Razzo rosso sul Nanga Parbat” appena uscito tradotto in italiano per i tipi del Corbaccio.

Ottimi gli interpreti principali: Florian Stetter, già apprezzato nel drammatico “la Rosa Bianca”, nel ruolo di Reinhold e Volker Bruch, in quello di Günther, nonché Kark Markovich nella parte di Herrligkoffer.  Sono magnifiche le riprese di montagna e notevole è la cura dei particolari nelle scene di arrampicata e di progressione  su ghiaccio, girate sull’Ortles.
Il film ha potuto disporre di un budget di 7 milioni di euro finanziati dai due maggiori sponsor BMW e Salewa che ha ricostruito le tende e i materiali usati nel 1970.

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