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San Pietro di Córteno Golgi, 4 settembre 2003 – Anche in un’estate asciutta e calda come quella trascorsa, nei nostri boschi e pascoli d’alta montagna sono maturati frutti di bosco in quantità copiosa. La qualità, va da sé, è eccellente.

Ne abbiamo la dimostrazione in una escursione sulle Alpi Orobie nord-est, in alta Valle Camonica. Con alla testa la nostra guida personale Giacomo Salvadori, saliamo precisamente dalla Val Paisco e poi per il ramo della Val di Scala, giungendo prima ai laghi omonimi, indi al Rifugio Torsoleto (2.390), infine al Bivacco Davide (2.645).

In questo confortevole guscio alpino pernottiamo in tutta sicurezza e tepore durante la prima notte veramente fredda dell’eccezionale estate 2003 (larghi fiocchi di neve il pomeriggio del 1° settembre e folate di vento da strappar la bandiera durante la notte), svegliandoci con una mattinata in cui i – 8° della minima notturna imperlano l’erba “ìsega” di lucenti sfere ghiacciate.

Già alle 7:30, però, il maestoso panorama su Lago Pìcol e suoi satelliti, contornati dalle sentinelle Borga e Castel di Pìcol, e poi oltre su Baitone-Adamello, Concarena-Badile, Presolana-Camino, Disgrazia-Bernina e Ortles-Cevedale, scalda il cuore. A dire il vero, ai più freddolosi ospiti del “miglior bivacco di Lombardia” (lo hanno scritto nel libro visite) serve anche il passamontagna, ma per il resto è autentica estasi alpina. Il tratto in cresta dal Bivacco Davide al Passo del Torsoleto (2.578) prima e al Passo Sèllero (2.421) poi, in direzione ovest, regala altre emozioni forti.

Siamo qui lungo il famoso Sentiero 4 Luglio, o Alta Via n. 7, un tracciato che, pur a tratti impervio, è prodigo di mutevoli meraviglie panoramiche a 360°. Tralasciando le cime e i gruppi montuosi, già sommariamente elencati sopra, che si stagliano all’orizzonte in direzione di ognuno dei punti cardinali, ecco i Laghi Cupeti, le profonde Malghe Sèllero e Sellerino con l’omonima valle sottostante e la sua cascata; oppure i Laghi della Cülvegla, che appaiono all’improvviso, ancora sovrastati da un nevaio abbastanza vasto e che probabilmente non si esaurirà nemmeno al termine dell’estate più torrida degli ultimi 200 anni.

Lasciato il crinale dopo un ultimo sguardo e una foto al filo di cresta che s’arrampica sul Monte Sèllero (2.744) – tetto della maratona d’alta quota che da 10 anni lo vede protagonista del Gran Premio della Montagna assegnato ai primi skyrunner uomo e donna che vi giungono – precipitiamo rapidamente ai laghi della Cülvegla e poi giù per la lunga Val Campovecchio.

È qui, intorno ai 2200 metri di quota che, improvvisamente, scorgiamo tra l’erba e i cespugli di rododendro le prime piantine di un mirtillo che noi chiamiamo “baga de l’ors” (uva ursina?), le cui foglie hanno un colore sul verde acqua, diverso dal verde prato di quelle del mirtillo comune. E su queste, bagnate di rugiada, decine-centinaia-migliaia di bacche celesti e vellutate che luccicano al sole. Alcune sono grosse come acini d’uva e così fitte da somigliare a piccoli grappoli. Possibile che nessuno, nemmeno le marmotte che si sentono fischiare tutt’intorno, se ne siano cibate? O forse lo hanno fatto e quest’anno c’è sovrabbondanza? Mi vien da sorridere pensando a certi turisti che, a quote “comode”, già all’inizio di agosto lamentavano “la fine dei mirtilli”. Cogliendoli, i delicati frutti denotano la loro avanzata maturazione, ma sono dolcissimi e ricordano davvero il gusto dell’uva. Mi fanno venire in mente certa “brignöla” che si coltiva in Valtellina, sui terrazzamenti del ripido ed assolato versante retico. In pochi secondi se ne può cogliere una manciata e gustarla; tra l’altro è mattina avanzata e l’appetito comincia a farsi sentire. Alzando lo sguardo si vede un altro nevaio, più piccolo del primo, residuo della valanga proveniente da un canale dai bordi verdissimi del sovrastante Sèllero.

Il torrente Campovecchio si sta impercettibilmente formando e dopo un po’ comincia a chiacchierare, sempre più rumorosamente. Malga Cülvegla ci aspetta, coi suoi mandriani che ci invitano a bere “mèz menàt” (panna montata) e ad assaggiare un pezzo di “fèta” ancora calda (formaggio appena impastato). Siamo ancora a oltre 1800 metri e ci pare di essere già in città. Nella discesa lungo la carrozzabile, dopo Travasina e fino a Vènet, grossi lamponi si sporgono sul ciglio della strada, dopo un’estate in cui dovrebbero essere stati saccheggiati dalle presunte torme di turisti. Troviamo persino una pianta di ribes rosso, carica di frutti. Una coppia di ragazzi olandesi sale in direzione opposta alla nostra, lo zaino con dentro la tenda in spalla. Passeranno la notte dove si possono vendemmiare liberamente mirtilli dell’orso e bere acqua di nevaio.

La Valle dei ponti coperti (Campovecchio) è più bella che mai, il sole tiepido, le radure imbandite d’erba per le mucche e i tavoli da picnic di salsicce fumanti. Fuma anche il comignolo del bel Rifugio Alpini, incastonato tra massi giganti, sulla riva del torrente scavalcato dal ponte tibetano. È la promessa di un bel piatto di polenta e strinù, di pizzoccheri, o magari di cuz. Mantenuta.







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