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La “Fé cournoua” è la pecora, il “bërgé” il pastore, lo “stroup” il gregge; stiamo parlando in kyé, un dialetto che sopravvive, parlato – o, quantomeno, compreso – da circa un migliaio di persone alla testata della Val Corsaglia, nel Comune di Frabosa Soprana, in provincia di Cuneo. Fontane, Norea, Baracco, Rastello, Miroglio, Prea sono i nomi delle borgate del kyé, una particolare mistura di occitano, piemontese e ligure del quale è stato pubblicato un primo tentativo di studio linguistico. Il volume è stato curato da Livia Barbero Ruffino, con Nella Bottero e Lucia Vinai, ed è stato edito dall’associazione culturale “E kyé”, che ha tra i suoi scopi statutari proprio la salvaguardia di questa affascinante parlata.



Le autrici non hanno dubbi nell’ascrivere il kyé alle lingue di matrice occitana; forse tali valutazioni andrebbero soppesate con grande cautela, anche alla luce del complesso dibattito che si è acceso nelle vallate vicine sulla presunta “occitanità” del dialetto brigasco. In ogni caso, nel libro vengono debitamente evidenziati i molti apporti linguistici piemontesi e liguri assorbiti nel kyé, compresa la ligurissima “ř” vibrante, così caratteristica della Valle Arroscia, che dovrebbe rivelare quali fossero gli antichi percorsi invernali dei pastori frabosani. Dispute linguistiche a parte, la bellezza e l’espressività del kyé, così come di tutte le “lingue minori”, si colgono appieno nel vocabolario e nel frasario legato alla vita quotidiana e alla cultura materiale.



Apprendiamo, così, che esiste un apposito sostantivo per indicare il canto corale dei merli durante le mattine di primavera (“mërlatiõ”), così come il “pricoutiõ” è il chiacchiericcio fitto e pettegolo. A tavola ci vengono serviti “subrik”, “poulak” e “patanù”, ma pur sempre di “třifouře”, cioè di patate si tratta. “Gitue” e “poutrì” (minestre) e le “sfërse”, polpette di carne di maiale, sono altre specialità locali dai nomi bizzarri. Il lessico pastorale è, ovviamente, uno dei più ricchi e dei più interessanti; sopravvive, ad esempio, come in molti punti delle Alpi Liguri, il vocabolo “pařia”, che identificava il gregge collettivo di una comunità; nel kyé starebbe ad indicare, nell’uso attuale, la mandria bovina.



Oltre che note grammaticali e fonetiche, e un contributo per un possibile vocabolario, il libro raccoglie proverbi, modi di dire e espressioni idiomatiche, spesso estremamente espressivi nella loro sentenziosa icasticità: “Le gratzie ënt la poila i fridzou gheř”, “I ringraziamenti in padella friggono poco”, cioè i favori vanno ricambiati. Il proverbio “Le froume una për ka, le křōve una për pařok, i přev un për ciouké” prescrive “Le donne una (sola) per casa, le capre una (sola) per paletto, i preti uno (solo) per campanile”. Alcune “pseudoregole” meteorologiche rimandano ad una capacità di osservazione ormai perduta, sviluppata sulla spinta di paure ataviche: “Koursaia e la lavōncia i han mai pers le soue koueřendze”, “Corsaglia (il torrente della valle) e la valanga non hanno mai perso i loro diritti”. Nel linguaggio rude della montagna si apre, però, anche qualche squarcio di vera e propria poesia: conoscete, in qualche altra lingua, un modo più bello di dire ”prendere il sole” che “ësc-koutō la rōia”, “ascoltare il raggio”?







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