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Estetica e arrampicata atletica si sono intrecciati nell’alpinismo di ricerca di Guido Magnone, primo salitore del Fitz Roy con Lionel Terray. Il novantenne scalatore,  nato a Torino ma trasferitosi a Parigi a soli quattro anni, era domenica a Torino ad “Alpi 365 – expo”, di ritorno dal Forte di Bard dove sabato scorso era stato acclamato socio ad honorem del Club Alpino Accademico Italiano, durante il convegno nazionale dello stesso. 

Durante la conferenza, Guido Magnone ha raccontato gli inizi della sua avventura in montagna, cominciata quasi per caso a Chamonix, dove si era recato per prepararsi all’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti di Parigi. "Facevo le decorazioni delle scatole di cioccolatini di un’azienda di famiglia e volevo continuare la carriera artistica. A Chamonix sono stato preso immediatamente dal desiderio di scalare il Monte Bianco. Con alcuni amici mi sono allenato sui ghiacciai, rischiando la vita almeno una decina di volte prima di salire in vetta al Monte Bianco".

Le foto dell’epoca ce lo restituiscono con un fisico atletico e buoni muscoli: era campione di  nuoto e faceva parte della nazionale francese di pallanuoto. Entrò all’Accademia di Belle Arti, una vera gratificazione personale, ma allora uno scultore non poteva vivere solo d’arte: "Nel 1952 chiesi di partecipare a una spedizione in Patagonia formata da giovani scalatori non selezionati per la squadra nazionale impegnata su montagne himalayane. Partimmo pensando che non sarebbe stato un problema scalare fino a 3400 metri di quota, ma non conoscevamo le difficoltà del clima, con venti fino a 225 km all’ora. Dopo la perdita di Jacques Poiçenot, morto annegato, non fu facile trovare la forza di continuare, ma alla fine l’idea di non riuscire sarebbe stata insopportabile e Lionel Terray ed io riuscimmo a raggiungere la vetta del Fitz Roy. L’impresa ebbe allora larga eco in Argentina e più tardi l’ascensione fu classificata di sesto grado".

Nello stesso anno affrontò con analoga determinazione uno dei problemi delle Alpi: la parete ovest dei Drus, vincendola con una tecnica innovativa che non mancò di suscitare polemiche: "Dopo aver interrotto l’ascensione a metà della via per mancanza di viveri, tornammo sul posto salendo dal versante Nord, una via non facile, ma non così difficile, e ci calammo sulla Ovest assicurandoci su dei chiodi a pressione".

Poi fu la volta dell’ottomila, il Makalù, su cui arrivarono tutti i componenti della spedizione. "Una montagna bella, magnifica, cui solo il K2 fa concorrenza dal punto di vista estetico" afferma Magnone  che sempre si è lasciato affascinare dalla “forma” delle montagne scelte. Così fu anche per la Torre Mustagh in Pakistan: "Fu una foto di Vittorio Sella, scattata durante la spedizione nel Baltoro del 1909, a farmi proporre questa montagna alla fédération française d’alpinisme. La didascalia diceva  che nessuno avrebbe potuto salire questa montagna". I francesi la scalarono e per una via diversa da quella aperta da una spedizione inglese che li precedette in vetta di pochi giorni. Del ‘59 è il tentativo allo Jannu (altra montagna magnifica caratterizzata da una cresta affilata), mancato solo per la decisione del capo spedizione Jean Franco. Nel ’62 Magnone concluse la sua carriera alpinistica di punta con la prima ascensione del Chacraraju, in Perù, ancora con Lionel Terray.

Dopo anni passati a lavorare per il turismo giovanile nel ministero dello sport e della jeunesse, Magnone è tornato all’altra passione della sua vita, la scultura. Una sua opera, il genio della montagna, si trova nel comune di Etroubles, nella Valle del Gran San Bernardo.
"Il riconoscimento del Club alpino accademico – ha affermato Pietro Crivellaro, giornalista e accademico, conduttore dell’incontro di Torino – rende giustizia a un grande alpinista del novecento, che è stato anche artista e vivace narratore e il suo libro “Scultore di cime” sarà presto tradotto in italiano".

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