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Dalle Alpi (“bastione acquifero” d’Europa) confluiscono enormi quantità d’acqua in un bacino di 143.000 km quadrati, attraverso il quale corrono verso le valli ben 200 miliardi di metri cubi “d’oro blu”. Una grande risorsa da utilizzare bene, visto che questa “riserva” subisce per prima le conseguenze del riscaldamento climatico (il manto nevoso e i ghiacciai non sono più quelli di una volta: rispetto al 1850 si sono già ridotti della metà). Tuttavia, questa risorsa d’acqua potabile delle Alpi è ancora considerevole. E spesso sprecata. Nei Paesi europei le perdite sono stimate in media intorno al 30 per cento e giungono fino al 70-80 per cento in alcune città. Soltanto il 2 per cento circa dell’acqua potabile è effettivamente utilizzato per il consumo umano. La Convenzione delle Alpi finora non ha prodotto grandi risultati. Esistono le direttive europee del 17 febbraio 1998, che raccomandano una “gestione integrata e sostenibile degli ambienti acquatici”. In Italia, la legge Galli del 1994 impone “il livello di deflusso necessario alla vita negli alvei…”. Analogo impegno è imposto dalla legge che istituisce le Autorità di bacino. Ma, come vanno le cose? A nove anni dalla Legge 36/94 lo sviluppo del mercato sui servizi idrici in Italia resta – in gran parte – solo sulla carta. L’eccessiva frammentazione non è stata eliminata. Sono 8100 i soggetti che a vario titolo operano nel settore. La “legge Galli” prevedeva 84 ambiti territoriali : sono ancora molti quelli non insediati ed anche tra quelle realtà dove l’autorità d’ambito è stata istituita, non tutti hanno completato una ricognizione delle opere. Nella maggior parte dei casi in cui si è decisa la forma di gestione si è optato per quella mista pubblico-privato.

Un mazzolin di fiori, una rustica fontana d’acqua sorgiva, una leggiadra signora in gonna e scarponi, lo sfondo evanescente del Monte Leone. L’immagine è il simbolo di un nuovo uso ricreativo dell’alpe Veglia in cui i valori estetici ed escursionistici diventano lentamente predominanti. (Fotografia di Mario Ciceri, Archivio Famiglia Ciceri – Varzo)Raramente si è deciso di fare una gara per l’assegnazione del servizio. Negli ambiti dove è stata fatta una ricognizione si è riscontrato che le perdite della rete idrica sono comprese in percentuali che vanno dal 20 al 40%. Le scarse dimensioni dei gestori non hanno permesso investimenti. Il risultato è che il 98 % della popolazione è servita da acquedotti, con servizi scadenti. Il 34% degli abitanti serviti non hanno acqua a sufficienza e il 44% non beve l’acqua del rubinetto.

I problemi – e le opportunità – legati alla “economia dell’acqua” nelle Alpi e nelle realtà montane in genere, sono un punto importante. Soprattutto in una realtà come il VCO, dove l’acqua è stata elemento determinante della cultura e dell’economia, dalla nascita dell’industria tessile a quella idroelettrica.

Si va dagli impianti di regimazione alla gestione dell’acqua di qualità per gli usi potabili ai progetti idroelettrici per colmare il pauroso deficit (in Piemonte sfiora il 50%) d’energia elettrica in tutto il settore alpino, alla utilizzazione del diporto lacuale, a tutte le attività sportive connesse alla vita fluviale.

Il sistema alpino produce quasi 50 miliardi di mc. d’acqua: un’immensa risorsa naturale che, almeno in parte, va trasformata in risorsa economica.

pannelli solari per energia rinnovabileSi tratta di sperimentare e di diffondere – accanto a modalità di consumo e di distribuzione che puntino all’efficienza, al risparmio e al minor impatto ambientale possibile – modalità di produzione energetica incentrate sulle energie rinnovabili, che possono anche costituire delle filiere economiche “brevi”, come nel caso del legno. E’ necessario promuovere l’attivazione di progetti e di risorse ad hoc da parte di Regioni, Province ed Enti locali, capaci di coinvolgere i privati.

Nessuno può negare che sono “risorse delle montagne”, ma è un fatto che alle montagne non ritorna praticamente niente. Le Regioni del Nord-Ovest “producono” complessivamente almeno 30 miliardi di metri cubi d’acqua. Più della metà defluisce al mare inutilizzata. Ma la parte usata assume, presso i “consumatori finali”, valori interessanti. Dai pochi centesimi al metro cubo dei consumi agricoli si sale ai 45/80 centesimi per i consumi industriali ed idropotabili, fino ai 200/300 euro al metro cubo nel caso si tratti d’acque minerali.

Ci sono leggi regionali sul ciclo idrico (come quella piemontese: la legge n. 13 del 1997) che stabiliscono un ritorno minimo del 3% alle comunità montane sul valore finale dei consumi idropotabili.

Le 8 provincie piemontesi, nell’applicare la legge, hanno la facoltà di andare oltre questa soglia percentuale che, nel caso di Cuneo, – per fare un esempio- è stata definita (come quota del “ritorno alla montagna”) nell’interessante soglia dell’8%. Sarebbe giusto e utile generalizzare questa opportunità.

Restando al problema, dei “ritorni finanziari”, vanno aggiornati i canoni di compartecipazione sui consumi idroelettrici a favore dei Comuni e c’è la necessità– sempre sull’acqua – di determinare tariffe idriche d’ambito che prevedano riduzioni fino alla esenzione totale del prezzo dell’acqua per i territori montani (che ne sono produttori).

Si evidenzia anche – legato al ciclo dell’acqua – un problema d’assetto idrogeologico del territorio che, nella nostra realtà, si propone con assoluta importanza.

L’abbandono della montagna, con le relative conseguenze in termini d’interruzione della manutenzione diffusa del territorio, è considerato tra le cause più rilevanti (anche se non è l’unica) del dissesto geologico, al quale va dedicato un adeguato approfondimento.

Da uno studio del Servizio geologico della Regione Piemonte, si apprende che – in questa realtà – gli avvenimenti dissestanti, in Piemonte, tra il 1850 e il 1999 sono stati ben 4334. Le punte di danno cominciano a salire e ad intensificarsi a partire dagli anni attorno al 1950. La punta massima rimane, per ora, l’alluvione del 1994, ma nell’ultimo decennio si calcola che i danni ammontino ad oltre 5 miliardi d’euro: una media di oltre 500 milioni l’anno. Questa situazione fa del Piemonte una delle regioni più fragili d’Italia.

Ovviamente se una somma analoga (ma anche molto più ridotta) fosse spesa per la prevenzione, anziché solo per il ripristino, si potrebbero ottenere tre ordini d’importanti risultati: sicurezza del territorio; sviluppo di un’economia della sicurezza geologica con una forte valenza anche sul piano occupazione; migliore funzione e impiego delle risorse idriche.



Marco travaglini, Responsabile Montagna dei DS

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