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Marco Confortola e Silvio Mondinelli venerdì scorso 22 agosto al Jardin de l’Ange di Courmayeur hanno parlato di amicizia in alta quota.
Seguiti da  moltissime persone, almeno una volta e mezzo i posti a sedere dell’area incontri all’aperto, Gnaro Mondinelli ha presentato “Il gioco degli Ottomila”, sull’etica dell’alpinismo e Marco Confortola “Il Selvadek e l’Annapurna”, sul suo personale percorso alpinistico. Insieme hanno parlato di solidarietà in alta quota, non così insolita come talvolta si racconta.

Maurizio Gallo che ha recentemente messo a disposizione le sue conoscenze delle montagne pakistane recandosi con Mondinelli in Pakistan, per predisporre eventuali soccorsi a Nones e Kerher, ha sottolineato l’operato di Confortola sul K2. Questi non ha esitato a sacrificare la sua piccozza a quota ottomila per creare un ancoraggio e cercare di assicurare tre alpinisti della spedizione coreana, rimasti malamente appesi alle corde fisse.

Di Mondinelli sono stati menzionati i numerosi soccorsi sia all’Everest sia al K2. Lui stesso ha ricordato che durante l’incidente all’Annapurna che costò la vita a Christian Kuntner, nessuno degli alpinisti presenti pensò più alla vetta e tutti aiutarono a recuperare i feriti. «Sulle montagne meno frequentate – hanno concluso insieme Mondinelli e Confortola – dove ci sono alpinisti e non spedizioni commerciali, la solidarietà c’è ancora».

Marco Confortola porta tuttora i segni dell’avventura appena vissuta sul K2: vistose fasciature ai piedi per i congelamenti che gli procurano dolori lancinanti nonostante le terapie che sta praticando. «Ho recuperato due centimetri almeno di parte  che prima era blu», ha raccontato. Valeva la pena questo congelamento per una montagna, che aveva mancato di un soffio nel 2004, perché era misteriosamente sparita la tenda con tutto il materiale necessario per concludere l’ascensione? «Non c’è ottomila che valga un dito dei piedi. No, non ne valeva la pena ed è già tanto che sono tornato vivo».
Quest’anno era in ottima forma: due mesi all’Everest, dove con Silvio Mondinelli aveva impiantato gli strumenti della stazione meteorologica della rete Share e all’arrivo al campo base del K2 era già acclimatato. 

Il racconto di quel che è capitato il 1 agosto ha i toni crudi degli ottomila metri, dove tutto è al limite delle possibilità di sopravvivenza. «Nello scendere  non si vedeva e già quando ero in vetta avevo sentito urla. Ho telefonato a Agostino Da Polenza e, come mi ha consigliato, mi sono fermato lì».

Con un alpinista irlandese si è sistemato su una piazzola grande come una sedia, i piedi in un buco. Il fatto che non avesse calze di ricambio, le giuste scarpette interne degli scarponi, gli scaldini, che non erano stati portati all’ultimo campo dai portatori, ha probabilmente contribuito a innescare i congelamenti. L’essersi fermato e l’aver aspettato la luce per scendere gli ha però salvato la vita. Tre alpinisti che hanno proseguito nella notte sono caduti,  rimanendo appesi alle corde fisse. Il mattino dopo per tre ore ha cercato di aiutarli, di tirarli su perché erano a testa in giù. Poi dopo aver messo un guanto sul piede di uno e aver chiesto soccorso ai portatori della loro spedizione, senza piccozza, ha proseguito nella discesa verso il campo quattro. Poco dopo avrebbe visto schiantarsi sulle rocce sottostanti Gerrard, l’irlandese con il quale aveva bivaccato, che si era allontanato stordito dalla mancanza di ossigeno.

«Più in basso ho visto una piccozza, ho cercato di prenderla, ma sono rotolato per un centinaio di metri. Il giorno dopo, mentre continuavo a scendere sono stato investito da una valanga, dove c’erano tre persone, perché ho contato sei gambe, forse quelli che erano rimasti appesi alle corde fisse. Mi è arrivata anche una bombola sulla testa».

Cinque giorni per scendere fino al campo base, praticamente senza bere e mangiare, quasi senza aiuto, sperando che intervenisse l’elicottero che per motivi sconosciuti non si è alzato: «le condizioni meteo avrebbero permesso il volo e invece è arrivato solo al campo base».

Tre sono i motivi che gli hanno permesso di tornare vivo: «Perché il K2 non mi ha voluto, perché ho la testa dura e perché ero fisicamente a posto. Ma quando si sale in cima a un ottomila è perché la montagna te lo lascia fare. In realtà non si conquista niente».

Adesso pensa a guarire, sostenuto dagli amici, primo fra tutti Gnaro Mondinelli, che ormai è per lui come un fratello maggiore.

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