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All’età di 52 anni è morto Lorenzo Scandroglio, noto giornalista di montagna originario di Gallarate. Lo scorso 1 luglio era stato colpito da un grave malore all’Alpe Veglia, paradiso alpino tra Italia e Svizzera, in Val d’Ossola. Elitrasportato all’ospedale Maggiore di Novara, era stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico, ma le sue condizioni erano rimaste gravissime. Stamani è arrivata alla nostra redazione la notizia del suo decesso.


Lorenzo Scandroglio al Festival Letteraltura edizione 2007 – @Letteraltura.it

La montagna era il suo mondo, un ambiente che Lorenzo amava visceralmente. Ci eravamo conosciuti nel 2001 all’Alpe Devero, in una serata d’autunno nella locanda Alpino dell’amico Sandro. In quel periodo scriveva per la rivista mensile Alp diretta da Linda Cottino dell’editore Vivalda. Io ero un pivello giornalista di montagna, lui un signore della scrittura, un poeta del verticale.

Poi un giorno, davanti a una baita, con un bicchiere di vino accompagnato da formaggio di malga, mi disse: “Luca, sai che da tempo penso a una manifestazione in cui libri e scrittori di montagna possano incontrare il pubblico”. Furono quelli gli albori del festival LetterAltura che Lorenzo e l’omonima associazione culturale di Verbania organizzarono insieme per parecchi anni, riscuotendo un grandissimo successo.

Lo incontravo di frequente anche al Trento Film Festival della Montagna, con l’amico Luca Bich del Cervino Film Festival. E ogni tanto ci scrivevamo, per aggiornarci sulle nostre vite, legate, con un filo diretto, alle terre alte.

Da molti anni, Lorenzo gestiva con la guida alpina Cecilia Cova il rifugio Miryam in Val Vannino Alta Val Formazza, di proprietà delle Acli Milanesi, e successivamente era approdato al Città di Arona all’Alpe Veglia, sempre seguito dal fedele cane Cochise che lo accompagnava nel servizo di volontariato che prestava al soccorso alpino. Intenso il suo impegno culturale: fu autore e traduttore di testi per le case editrici Neri Pozza, Jaka Book, Lietocolle Libri, Cda&Vivalda, Gribaudo, Archivi del ‘900. Ha realizzato reportage alpinistici dal Pakistan per Radio Popolare e La7. Per molti anni ha curato una rubrica di cultura (soprattutto di montagna) sulle pagine de Il Giornale.

Oggi è difficile e doloroso doverti salutare, resta solo la scrittura a farci compagnia e ci sono, come sempre, le nostre amate montagne, a consolarci, perlomeno in parte; mai come oggi le immagino strette intorno a te, intente a proteggerti e a non abbandonarti mai in questo viaggio che purtroppo fa parte, prima o poi, della vita di tutti noi.

Ciao Lorenzo.

La redazione di DiscoveryAlps si stringe intorno alla famiglia di Lorenzo Scandroglio in questo momento di lutto e dolore.

…… Nel 2003 Lorenzo mi inviò questo racconto, nel quale emerge la sua straordinaria capacità narrativa. Era stato sommerso da una valanga sulle alture dell’Alpe Devero, scampando con i suoi compagni a questa implacabile forza bianca della natura. Eccolo in versione integrale; vi invito a leggerlo:

29 dicembre 2002, 10,30 del mattino. Alta Val d’Ossola. Il vento è una lama sui pochi centimetri scoperti del viso. Procediamo in fila indiana, alternando il passo al respiro – sospendendolo a tratti, per studiare il successivo – a venti metri dalla vetta, sulla direttrice della massima pendenza. Sopra di noi un cielo di cobalto in cui si tuffano, a rovescio, i picchi innevati, abbacinanti di luce, delle Alpi Lepontine.

Gli sci li abbiamo lasciati poco sotto perchè da quel lato non fanno presa nemmeno, i rampant, sorta di ramponi che si applicano agli sci da alpinismo e che ricordano la dentatura dei pescecani. L’Alpe Sangiatto è la nostra meta – si raggiunge, pelli agli sci, con tre ore e mezzo di cammino dal Devero, un alpeggio tutto baite, locande, profumo di legna arsa e niente automobili. Le guide parlano di una passeggiata, di un’escursione facile, quasi immune da rischi. Luciano, lui che ha cinquant’anni e 300 ascensioni in carriera, guida la nostra piccola spedizione. Matteo due metri sotto. Poi ci sono io. Puck, il mio Golden Retriever, arranca come può dentro i nostri solchi. In quel punto il manto bianco, inaspettatamente, è più alto e più morbido. Un cumulo di neve posticcia, depositata dal vento. Non ce l’aspettavamo. Procediamo in silenzio. Per un istante mi volto a guardare altri puntini neri che ascendono il Pizzo Cobernas, di rimpetto a noi. Mi giro e preparo un altro passo.

Luciano èsopra. Fermo. All’improvviso, confuso nel sibilo del vento, un grido teso allo spasimo: Viene giù!! Viene giù!!. Ho appena il tempo di vedere una fenditura che si apre. Non saprei dire quanto sopra le mani di Luciano. Avevamo parlato tante volte di valanghe, di come evitarle, di come ci si deve comportare quando si resta travolti. Dell’Arva, il dispositivo elettronico per la ricerca dei corpi. Non riesco a pensare a niente. In una frazione di secondo sono sotto, in un turbine di neve, di bianco, di luce. Bisogna nuotare e mollare tutto ciò che può essere da impedimento, insegnano ai corsi del CAI. Lo sapevo. Me ne sarei ricordato dopo. Dieci secondi da inferno, interminabili, a rotolare giù, a non vedere più il cielo. A pensare: è inita. E, latente, il timore di essere trascinato nel burrone della Valle d’Agaro – un salto di mille metri. Quando l’inferno si placa e torna il silenzio sono completamente sommerso. Non capisco dove è l’alto, dove il basso. Però vedo bianco, riesco a muovermi. Se avessi visto nero, e non solo metaforicamente, avrebbe voluto dire che ero sotto tanto, forse troppo. Ho la neve in bocca, nel naso, nelle orecchie. I bastoncini mi sono rimasti legati ai polsi. Non più di trenta centimetri di coltre sopra di me. Sono sul fianco. Scavo facilmente con le braccia e rivedo il cielo. Puck è là  fuori, mi salta addosso come fosse un gioco, scodinzola, mi passa la lingua sulla barba. Mi guardo attorno. Quelli che salgono al Cobernas sono tutti immobili. Quando il polverone si posa cominciano a sbracciarsi. Hanno sentito il boato, simile alle esplosioni delle cave di pietra, ma più prolungato ci avrebbero raccontato poi. Un fronte di trecento metri. Luciano mi raggiunge con la voce tremante. A non più di dieci metri alla mia sinistra vedo un braccio teso verso l’alto. Da quella angolatura ho l’impressione di un corpo assurdamente contorto, come fosse spezzato. Ci gettiamo su di lui e scaviamo. Abbiamo la pala, certo, ma anche un’indicibile ansia di tirarlo fuori. Così facciamo a mani nude. Liberiamo la testa perchè possa respirare. Matteo è dentro quasi in piedi, come quel condannato a morte di Corvo rosso non avrai il mio scalpo.

Degli sci non c’è più traccia. Scendiamo a valle con gli scarponi, sprofondando fino alla cintola, con gli stinchi doloranti. Incontriamo gli uomini del soccorso alpino che ci rincuorano. Ci abbracciamo. Alla fine siamo persino felici: abbiamo perso solo gli sci.

Un reportage, questo, di chi ha vissuto sulla propria pelle un’esperienza dalla quale spesso, e le cronache degli ultimi giorni ce lo dimostrano, non se ne esce vivi. Lorenzo è uno dei tanti (o uno dei pochi?) ad avercela fatta. E pensiamo che la sua testimonianza possa in qualche modo essere utile al lettore, così come è utile ascoltare le parole di chi ancora sà leggere la montagna, decifrarne gli umori, e capire quando è il momento giusto per non sfidarla.

 

 

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