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Hervé Barmasse è ritornato in Valle d’Aosta dopo la spedizione invernale in Pakistan: un’esperienza forte sul piano alpinistico e umano. Accompagnato dal medico valdostano Marco Cavana e da altri tre alpinisti del North Face Team, nella Valle di Shimshal ha vissuto mille peripezie. A cominciare dal’attività alpinistica, in cui la morte lo ha sfiorato per ben due volte. «Su una cascata di ghiaccio, quando eravamo ormai all’ultimo tiro, siamo stati investiti da una frana di enormi blocchi di roccia. – racconta Hervé Barmasse – Vedevo arrivare massi grossi come una macchina che mi passavano accanto, alcuni a pochi centimetri. Il tutto sarà durato sei o sette minuti e ho avuto tutto il tempo di capire che potevo morire. Quando è finita e sono sceso alla base della cascata, un mio compagno piangeva. Non pensava di vedermi ancora vivo. È stata un’esperienza forte che mi ha fatto riflettere sul rischio e sugli errori di valutazione potenzialmente mortali che si fanno quando paradossalmente andiamo in montagna per “vivere” la nostra passione». 

Come se non bastasse, nel tentativo ad una cima senza nome di seimila metri, a trecento metri dalla vetta, lo stesso Barmasse e Kris Erikson sono stati quasi investiti da una slavina: «Ci siamo salvati per puro caso: se ci avesse presi ci avrebbe spazzati via e sotto di noi avevamo salti di roccia di tre o quattrocento metri. Vista la pericolosità per gli accumuli da vento di neve, della consistenza dello zucchero per le basse temperature, considerato anche un principio di congelamento alle mani del basco Eneko Pou e il mal di montagna di Oscar Gorgorza, abbiamo chiuso lì con l’attività alpinistica». L’inverno in Pakistan è stato particolarmente rigido: nelle case di Shimshall, con la stufa accesa si raggiungevano i 5 gradi, all’ultimo campo in alta quota, in tenda gli alpinisti hanno registrato – 22 gradi.

Portato a termine il programma con la popolazione locale, l’insegnamento delle tecniche alpinistiche alla Shimshal Climbing school e l’educazione sanitaria di base. «In questa valle ci sono ben 43 portatori d’alta quota. Alcuni hanno all’attivo degli ottomila eppure non sapevano fare un nodo barcaiolo. Alla scuola c’erano anche numerose donne, perché questa è l’unica realtà in Pakistan in cui anche le donne possono arrampicare. Sono musulmani ismaeliti, molto aperti e desiderosi di imparare. Chiedono solo che gente esperta porti le proprie esperienze tecniche».

Dal punto di vista medico Marco Cavana si è prodigato oltre che nell’impartire lezioni di igiene, nell’intervento a due feriti gravi: un trauma alla colonna vertebrale a rischio di paralisi ai quattro arti e un caso di folgorazione. I due pazienti sono stati trattati a Gulmit, dove c’è un ospedale nuovo, attrezzato, ma dove manca personale medico che sappia farlo funzionare. I due feriti sono stati poi trasportati in elicottero a Gilgit, con l’unico volo che è stato possibile effettuare. «Un guasto all’elicottero, poi il brutto tempo hanno impedito voli successivi. In Pakistan i piloti non rischiano più di tanto e volano solo in condizioni ottimali. Noi alpinisti abbiamo dovuto utilizzare una barca per il ritorno!».

L’enorme frana caduta il 4 gennaio nella vallata Hunza ha infatti formato uno sbarramento sul fiume Hunza e un lago che ha coperto per numerosi chilometri la Karakorum Highway. «La situazione è drammatica perché se si rompesse l’argine, sarebbero a rischio circa trentamila persone nei villaggi a valle della frana stessa », ha concluso Barmasse.

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