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Incontriamo Nicholas Evans, una delle star della sezione letteraria del Noir in Festival di Courmayeur, in Val d’Aosta (già ospite a settembre a FestivalLetterature di Mantova), per parlare del suo nuovo libro. Nato nel Worcestershire, in Inghilterra, lo scrittore inglese aveva fatto parlare di sé alcuni anni fa con il suo “L’uomo che sussurrava ai cavalli” da cui è nato anche un film di successo di e con Robert Redford, su cui Irene Bignardi, dalle colonne del quotidiano La Repubblica, aveva a suo tempo riservato giudizi tutt’altro che lusinghieri, stigmatizzando “quell’incredibile esercizio kitsch nell’arte della commozione che è il best seller di Nicholas Evans” e definendo il film “un perfetto catalogo della Marlboro Country”. Cittadino del mondo con una certa ritrosia all’orgoglio britannico, che considera provinciale, Evans intrattiene da tempo un rapporto privilegiato con gli States, con i suoi grandi spazi e con la sua società che ha avuto modo di conoscere durante i molti anni di lavoro in qualità di sceneggiatore. Indubbiamente lo stile, a suo modo cinematografico, e lo scenario dei libri, risentono di questo background. Ecco allora spiegato perché quel suo primo grande successo fosse ambientato nel Montana, così come lo era “Insieme con i lupi” e lo è quest’ultimo “Quando il cielo si divide” (Rizzoli, pagg. 483, €. 18,50). Che, se non si può definire un noir in senso stretto, è senz’altro una storia di quelle che mettono i brividi. Intanto perché Abbie, la giovane Abbie, una delle protagoniste, viene trovata morta sotto la lastra ghiacciata di un lago. Figlia di una coppia newyorchese in crisi matrimoniale, Abbie era rimasta coinvolta in vicende di ecoterrorismo. In sostanza però le questioni ambientali sono un pretesto, anch’esse, come lo erano i cavalli e i lupi nei precedenti libri, per indagare la fragilità dei rapporti umani, il dolore, ma anche il calore, che tutte le relazioni inesorabilmente innescano. Quelle fra genitori e figli, fra uomo e donna, fra uomini e animali, fra uomini e uomini..



Lei è inglese ma le sue ambientazioni sono tutte oltreoceano. Perché?

«Mi interessa molto il modo in cui mito e realtà si intrecciano negli Usa. Sappiamo tutti ormai che la conquista dell’West è stato un genocidio con tanta brutalità e barbarie. Eppure in America la componente mito-leggenda permane, forse perché si tratta di un paese giovane, e l’idea del buon pioniere spacca-legna che vive in una capanna di legno ed ha portato la civiltà prevale, nell’immaginario, su quella reale. Io poi non ho mai sentito il senso di appartenenza a una tribù. Al limite mi sento più latino. Comunque preferisco guardare altrove per avere un più ampio respiro. L’Inghilterra contemporanea post-bellica mi sembra un po’ troppo angusta e provinciale. Al limite sceglierei un altrove nel tempo, e allora un Inghilterra del passato».



Qual è l’idea di letteratura di Evans? Puro intrattenimento o pungolo in grado di incidere in questioni cruciali della vita e della società?

«Voglio sperare che i miei libri non abbiano solo una funzione ornamentale, di intrattenimento, e devo dire che la mia idea di letteratura non è tale. Certo, nella nostra società si tende a semplificare la questione in questi termini: se un libro vende bene allora è superficiale; se vende poco allora assurge alla dignità di letteratura seria. Io sono felice che i miei romanzi vadano bene, e ci sono anche dei piccoli ma significativi esempi di come essi lascino un segno».



Quali?

«Le lettere di coloro che mi scrivono dicendo che i miei libri li hanno aiutati a comprendere meglio il senso di una loro relazione fallita, o di quanti hanno subito un lutto e il mio romanzo li ha aiutati a elaborarlo».



Dunque la sua scrittura si concentra su psicologia dei rapporti e fragilità dell’essere umano. E la natura, i cavalli, i lupi, l’ecoterrorismo?

«Molti ritengono che sia uno scrittore di animali, ma gli animali sono una metafora al limite. In effetti a me interessa gettare luce sugli aspetti emotivi e psicologici delle relazioni, sul dolore che gli uomini infliggono a se stessi e a coloro cui vogliono bene. Ma non si pensi alla disperazione e al male di vivere, come lascia intendere il finale del film “L’uomo che sussurrava ai cavalli”. Il film è un’altra cosa. Io lascio spazio alla speranza. D’altronde la resa cinematografica della seconda parte della storia tradisce un po’ lo spirito del libro. Redford è stato molto gentile nei miei riguardi, perché mi ha informato passo passo sull’evolversi delle riprese, ma non mi ha mai chiesto un consiglio, e forse è giusto così. Torniamo alla domanda: c’è anche la natura, certo, ma non accetto l’idea che sia qualcosa di estraneo all’uomo. L’uomo avrà evoluto le sue facoltà intellettuali e logico-verbali ma mantiene anche una natura animale. E di questo tengo conto nei miei romanzi».



Il suo ultimo libro si apre con un’epigrafe da Calvin Sashone che, a proposito di uomini e donne, recita: “solo così, divisi, essi potranno trovare la vera via”. Perché?

«Intanto il titolo originale è “The divide” e si riferisce proprio a quell’incolmabile abisso che separa uomo e donna, cui l’amore non può sopperire se non temporaneamente e parzialmente. Naturalmente poi ci sono altri livelli: il primo è quello fra i due protagonisti, i genitori di Abbie, Benjamin e Sarah Cooper, che sono stati una coppia felice e la cui felicità, ora, si dà solo nelle loro vite divise; e poi c’è il livello del rapporto tragico, tremendamente attuale, esistente fra legalità e terrorismo, in questo caso l’ecoterrorismo».



Lei da che parte sta?

«Dalla parte della legalità, anche rispetto ad Abbie e alle questioni ambientali più grandi. Però con la consapevolezza – e la consapevolezza non è poco – delle ipocrisie che caratterizzano i nostri sistemi: vogliamo esportare la democrazia, la legalità, la civiltà altrove, ma gli stessi tutori della legalità si sottraggono ad essa, come dimostrano tanti esempi, ultimo in ordine di tempo quello dei sequestri illegali dei servizi segreti americani; il tutto in nome della lotta al terrorismo che sembra diventata la legittima giustificazione a tutto; io, per me, sono disposto ad accettare un po’ di terrorismo in più pur di non arretrare mai di fronte alla mia moralità».



Qualcuno sostiene che la sua scrittura è particolarmente adatta alla sensibilità femminile, che sa scandagliarne l’anima? È d’accordo?

«Nel mio lavoro di sceneggiatore mi è capitato di lavorare sui transessuali. Così mi hanno fatto membro onorario di un’associazione e, un giorno, uno di loro mi ha detto: “vede, Dio ha fatto 76 sessi diversi, ma li ha incanalati in 2 soli grandi gruppi, il maschile e il femminile”. Ecco è uno dei modi per dire che ci sono tante sfaccettature del maschile e del femminile. Ora, il mio modo di essere scrittore e uomo, probabilmente, si declina secondo una sensibilità più sottile, che le donne sentono più affine. Eppure quest’ultimo libro pare piaccia molto anche agli uomini».



Perché al Noir in Festival?

«Beh, in effetti il mio più che un noir lo definirei un blu-scuro».





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