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In alta montagna, respirare di più o respirare meglio? La risposta a questa domanda potrebbe essere una delle chiavi per capire non solo  l’acclimatazione in alta montagna, ma anche l’adattamento, quello che interessa le popolazioni residenti a quote elevate, quali Tibetani e Andini.

È tuttora opinione diffusa che una risposta ventilatoria molto elevata (con l’aumento sia  della frequenza sia della profondità del respiro) sia necessaria per raggiungere quote estreme, al di sopra degli ottomila metri, senza ossigeno. Tuttavia alcuni studiosi, tra i quali Luciano Bernardi(1), (professore di Medicina Interna dell’Università di Pavia, all’attivo dodici anni di ricerche sugli adattamenti cardio respiratori all’alta quota), hanno espresso un’ipotesi alternativa.

In passato, durante uno studio in Ladakh, osservando che alcuni soggetti praticanti la respirazione yoga portati in alta quota non avevano sintomi di mal di montagna, i ricercatori avevano formulato l’ipotesi che con atti respiratori lenti e profondi  si ottenga una miglior distribuzione di aria nei polmoni e quindi una miglior ossigenazione del sangue. Per esempio è stato dimostrato che gli effetti di questo tipo di respirazione sulla produzione di eritropoietina sono paragonabili a quelli della somministrazione di ossigeno.

L’ipotesi  che l’eccessiva ventilazione possa essere addirittura controproducente portando a un precoce esaurimento della riserva ventilatoria è stata testata su undici scalatori d’élite della spedizione italiana all’Everest del 2004. Cinque di questi raggiunsero la vetta dell’Everest senza ossigeno, degli altri sei  quattro rinunciarono e due dovettero ricorrere all’ossigeno. Ebbene gli scalatori che raggiunsero l’Everest senza ossigeno, a 5200 metri di quota respiravano più lentamente degli altri sei, in modo più efficiente e quindi con una maggior riserva disponibile per raggiungere la vetta.

In accordo con lo stesso principio è stata formulata l’ipotesi che l’adattamento delle popolazioni residenti in alta quota possa essere legato anche a  fattori culturali: le popolazioni tibetane che praticano la meditazione e lo yoga sono meglio adattate di quelle andine. Infine è stato osservato che la respirazione yoga, lenta e profonda può essere utile anche in alcune patologie cardiache e respiratorie: è una pratica igienica che può essere insegnata e venire associata ai farmaci in pazienti affetti sia da scompenso cardiaco sia da broncopneumopatie croniche ostruttive.
Oriana Pecchio

(1)Bernardi L, Schneider A, Pomidori L, Paolucci E, Cogo A.
Eur Respir J. 2006 Jan;27(1):165-71.

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