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Il 9 ottobre del 1963 alle 22 e 39 inizia la tragedia. Annunciata. Una frana di proporzioni terrificanti, una massa rocciosa di circa 270 milioni di metri cubi tra rocce e detriti lungo il versante settentrionale del monte Toc, inizia il suo cammino. Passa poco tempo e la gigantesca frana finisce nel lago artificiale sottostante. Un impatto che toglie il fiato: 40 i milioni di metri cubi di acqua che vengono sollevati. La costa del Toc – larga quasi tre chilometri – viene interamente inghiottita dal lago. E’ da lì che si solleva una massa d’acqua alta oltre i 100 metri.

Così ha inizio una delle più atroci tragedie che l’arco alpino conosca. E’ storia nota – trita e ritrita – ma che non va di certo dimenticata. Così ebbe inizio la fine di troppe persone.

Le ondate che si sollevarono dall’impatto ‘montagna – acqua’ furono due: la prima spazzò le frazioni di Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineta, Ceva, Prada, Marzana e San Martino. La seconda si stampò sulla diga, che resistette all’urto; ma l’acqua la scavalcò irrompendo nella valle del Piave. Un’onda di 200 metri ad elevatissima velocità e spropositata potenza. Longarone rasa al suolo. Quasi 2.000 morti. Distrutte altre frazioni tra cui Rivalta, Pirago, Faè, Villanova, Codissago.



Sono passati 41 anni.

Una tragedia, non c’è altra definizione. E annunciata, non c’è altra dimostrazione. Si poteva evitare tutto questo, evitando di costruire la diga in quella zona, da secoli ritenuta franosa e con un movimento del versante montuoso che sovrastava il bacino idroelettrico che già aveva iniziato a preoccupare dal 1960, tre anni prima. Restano come sempre i perché: quelli non mancano mai. Ma non per tutti c’è una risposta. Ci sono i fatti.







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