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Come annunciato qualche giorno fa, è andato a “Le regioni del cuore” (Cda&Vivalda, pagg. 200, €. 19,00), biografia struggente dell’alpinista Alison Hargreaves, lei che voleva il riconoscimento delle sue capacità alpinistiche al punto da riuscire a raggiungere in solitaria il K2 salvo poi scomparire durante la discesa lasciando per sempre due figli, il Cardo d’oro 2005 del principale premio dedicato ai libri di montagna, il Premio Itas, che si tiene a Trento nell’ambito della nota kermesse cinematografica di settore. Scritto a quattro mani dalla coppia inglese Ed Douglas (direttore dell’Alpine Journal) David Rose (alpinista e collaboratore di “The Guardian” e “The Observer”), per la traduzione di Francesca Colesanti, è uno dei tanti esempi di opere che, invece di essere valorizzate dall’inserimento nel genere “Letteratura di montagna”, ne subiscono l’inevitabile ghettizzazione.



Dinamica di cui sono vittima, in Italia più che altrove (considerato che il nostro è paese in maggioranza montano nonostante un’elaborazione culturale tradizionalmente marinara o di pianura), molti altri titoli che, a buon diritto, possono essere considerate opere letterarie “tout court”, con gli ingredienti necessari del caso, dal dramma esistenziale al rimando filosofico, dalle passioni alla formazione di cui la natura è insuperabile maestra, con il valore aggiunto dell’avventura e il pregio dello stile.



Così, in un momento in cui la grande editoria sta sfornando inusuali quantità di titoli che ruotano attorno al “verticale”, si scopre che l’avventura in ambienti estremi, che tanto fascino esercitava sui bambini che leggevano da “Zanna Bianca” di Jack London in su, è in grado di dare agli adulti stimoli non inferiori, e di sollevare domande non meno profonde, di quelli di un Proust o di un Manzoni. Anzi..



Fra gli altri libri segnalati dalla giuria presieduta da Rigoni Stern come non citare “Confessioni di un serial climber” (Edizioni Versante Sud, pagg. 237, €. 17,00), dell’americano Mark Twight – istruttore delle forze speciali dell’esercito americano che liberarono gli italiani in Iraq – che considera l’alpinismo estremo come una risposta alla “stupidità e alla mediocrità” e, allo stesso tempo, perfino un modo per sfuggire al suicidio? A vent’anni Twight ascoltava a palla in cuffia, mentre conficcava i suoi ramponi nel ghiaccio strapiombante, il gruppo punk dei Joy Division, con quell’esaltazione vitalistica tipica di quando si fronteggia la morte. Contrappuntato da citazioni, da Gaughin a Nietzsche, è un insieme di resoconti di scalate che si fanno leggere d’un fiato anche dai profani.



Stranamente non segnalato il libro “Come le montagne conquistarono gli uomini” dell’americano Robert Mac Farlane (Mondadori, pagg. 288, €.18,00), mentre è fresco di stampa, con tanto di riconoscimento da parte di Claudio Magris, “Storie del bosco antico” (Mondadori, pagg. 148, €. 10,00), del più saggio e stravagante montanaro italiano, lo scrittore-scultore-scalatore Mauro Corona.



A breve in uscita poi, dello storico inglese dell’esplorazione himalayana John Keay, “Quando uomini e montagne si incontrano” (Neri Pozza, pp. 432, €.18,50), che può essere letto tanto come un capitolo della storia della Compagnie delle Indie, quanto come un excursus su una serie di personaggi improbabili che, nell’ottocento, primi occidentali a farlo, esplorarono le regioni dell’Himalaya.







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