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Edmund Hillary  voleva essere ricordato non tanto per essere stato il primo uomo sull’Everest, a pari merito con Tenzing Norgay, (non aveva mai voluto svelare chi veramente fosse stato il primo, perché il successo era stato della cordata e non del singolo), ma per quello che aveva fatto oltre l’Everest. Meglio che in tutte le dichiarazioni rilasciate, lo aveva dimostrato nel film di Michael Dillon “Beyond Everest”, presentato a Trento nel 2001.

La sua avventura alpinistica era continuata dopo l’Everest per cinquant'anni, nell'opera di aiuto al popolo Sherpa: trenta scuole, due ospedali, ambulatori, centri di formazione, ponti, piste di atterraggio, fognature, acquedotti. Queste erano le sue soddisfazioni, le vere montagne scalate, le vittorie da ricordare. Le immagini del film rimandano un Hillary muratore e carpentiere o a capo di un gruppo di Sherpa e sherpani che danzando spianano la terra di una pista di atterraggio.

I britannici lo avevano elevato al rango di baronetto, probabilmente anche per “nobilitare” la conquista dell’Everest (in fin dei conti la conquista britannica si era avvalsa dell’opera di un apicoltore neozelandese, né nobile né intellettuale, e di uno Sherpa nepalese!) e lui aveva saputo sfruttare appieno la sua popolarità per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni himalayane.

Ma anche il suo modo di andare in montagna in alta quota era diverso da quello che si osserva oggi. Per lui non era vero che sopra gli ottomila non esistono etica e morale. Nel 1960/61 partecipò alla spedizione  alpinistica e scientifica al Makalù. Ne scrisse in “High in the thin air”, dove si racconta una storia esemplare di soccorso al di sopra degli ottomila metri di quota. L’amico fraterno Peter Mulgrew, colpito da infarto polmonare poche centinaia di metri sotto la vetta, fu assistito dai compagni, trasportato al campo base, mai lasciato solo nonostante le condizioni disperate (che differenza dalla tragedia dell’Everest del ’96 raccontata da Krakauer). Ci vollero circa quindici giorni prima che Mulgrew arrivasse in ospedale a Kathmandu. Seppure con terribili congelamenti e una grave infezione ai polmoni, sopravvisse.

Da giovane Hillary aveva letto i diari di Shackleton: era l’eroe che gli instillò il gusto dell’avventura. Di lui ammirò l’incredibile capacità di adattamento ai cambiamenti di situazioni, quella che gli permise di salvare l’intero equipaggio dell’Endurance, dopo due anni di peripezie tra i ghiacci antartici. Da lui, come aveva affermato in un’intervista, aveva imparato che la vita delle persone viene prima del successo di un’impresa. La vetta del Makalù non fu raggiunta quella volta, ma tutti tornarono a casa.

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