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In occasione del 67esimo Trento Film Festival, martedì 23 aprile, si è inaugurata la mostra dello scultore valdostano Donato Savin, esposta nel cortile di Palazzo Thun in via Rodolfo Bellenzani 19 a Trento. La mostra, che raccoglie venti opere dello scultore valdostano, è stata promossa dal Trento Film Festival e dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta ed è stata curata da Aldo Audisio e Daria Jorioz. Aperta fino al 19 maggio, è completata da un catalogo in italiano, francese e inglese, con interventi di Aldo Audisio, Laura Gallo, Daria Jorioz e Paola Marini. Dopo l’esposizione al Museo nazionale della montagna di Torino nel 2017 e all’area megalitica di Saint-Martin de Corléans ad Aosta, lo scorso anno, Donato Savin conquista uno spazio anche a Trento e nella cornice prestigiosa del Filmfestival. Lo fa con le sue “stele”, déi di pietra celati nelle rocce e riportati alla luce con arte sapiente perfezionata negli anni.

Donato Savin è diventato scultore quasi per caso, fulminato nella scoperta della sua vocazione alla fiera di Sant’Orso a diciassette anni. «Ho osservato le sculture in legno e in pietra ollare e, tornato a casa, ho iniziato a scolpire, dapprima pietre tenere come il tufo, con attrezzi per il legno appartenuti al nonno falegname». Ha partecipato alla Fiera di Sant’Orso come espositore per la prima volta nel 1987, vincendo subito un premio e incoraggiato dall’amico scultore Dorino Ouvrier, anche lui di Cogne, ha continuato.

Donato Savin in mostra a Trento

Completamente autodidatta, ha trovato la sua strada confrontandosi e traendo ispirazione da scultori antichi e moderni: lo hanno colpito le stele antropomorfe esposte al Museo archeologico di Aosta, l’arte etrusca, i bronzi di Alberto Giacometti, le sculture di Constantin Brâncusi e di Henry Moore e l’arte africana. Con l’attrezzatura da marmista ha scoperto a poco a poco la tecnica che gli ha permesso di evolvere per rivelare l’anima della pietra. Sono nate così le sculture che ricordano primitivi numi tutelari, déi della montagna: la testa appena sbozzata, il corpo nascosto nelle lunghe e sottili lastre di scisti trovate in natura, spesso portate faticosamente a casa, caricandosele sulle spalle. Con esse vuole trasmettere la semplicità, l’essenzialità della vita.

Donato Savin, di cui a Trento è esposta una piccola parte della produzione, quella a cui è affettivamente più legato, è scultore a tutto tondo che lavora anche altre pietre, tutte provenienti dalla Valle d’Aosta: gneiss grigio e bianco dalla cava di Vieyes, marmo verde di Runaz, onice di Saint-Nicolas e tufo della valle di Cogne, o semplici sassi del torrente la Grand Eyvia, venati di marmo, trasformati dal calore e dalla pressione, levigati dall’acqua. Le trasforma in soggetti pastorali, pecore, mucche e in animali selvatici. Nel corso degli anni ha esposto alla Biblioteca di Chamonix, al castello di Ussel, alla Maison du Val d’Aoste a Parigi, a Sutri nel viterbese e nel 2010, alla Fortezza da Basso di Firenze, con una mostra collettiva prima allestita al Museo di arte valdostana di Fénis.

Donato Savin

Ha lavorato nel Corpo forestale valdostano e, seppure per modestia sovente lo taccia, ha anche un passato da atleta di scialpinismo, campione valdostano nel 2000 e settimo assoluto al Trofeo Mezzalama nel 2001, in squadra con Giuseppe Ouvrier e Massimo Borettaz. Il suo amore rimangono le montagne che continua a percorrere a piedi, alla ricerca delle pietre da portare nel piccolo laboratorio sotto casa, nella frazione Epinel di Cogne: lì avviene la magia, dalle pietre emergono e prendono vita déi dormienti e la materia si trasforma in opere d’arte.

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